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La bottigliata

“L’Abbuffone” di Ugo Tognazzi è molto più di un libro di ricette, è un trattato di filosofia (di vita). Un inno al cibo come godimento sfrenato – al pari del sesso e della stessa gioia – in una visione pagana dell’esistenza, precristiana e sicuramente prevegana.

Per intenderci, poteva capitare che il celebre attore si raccogliesse in preghiera, ma davanti al frigorifero della casa di campagna a Velletri, alla ricerca di un’ispirazione per il pranzo. Quell’enorme frigorifero, non a caso, lui lo considerava la cappella di famiglia.

Ugo Tognazzi iniziò a cucinare da autodidatta, anche se Vianello giura di avergli insegnato lui i rudimenti, quando vivevano e lavoravano insieme a Milano negli anni 50, protagonisti di sketch televisivi memorabili. Fatto sta che poi coltivò la passione in modo totalizzante, arrivando perfino a scegliere le cliniche dimagranti in base a come si mangiava. In anni in cui non esisteva la parola “foodie” (che gli sarebbe suonata come una supercazzola) frequentò cuochi e ristoranti di mezzo mondo, diresse il mensile “Nuova Cucina” e pubblicò libri di ricette (la prima edizione de “L’Abbuffone” è del 1974). Ma soprattutto fu un cuoco geniale, dalla curiosità vorace e dalla grande voglia di sperimentare, che lo portò fino all’ippopotamo alla pizzaiola. Ebbene sì, anche in cucina rivendicava “il diritto alla cazzata”, quello su cui goliardicamente aveva impostato l’intera esistenza. Compresa la cena dei 12 apostoli: un appuntamento fisso in cui lui cucinava per gli amici – tra cui Monicelli e Paolo Villaggio – che poi lo giudicavano con un punteggio di chiara derivazione fantozziana: straordinario, ottimo, buono, sufficiente, cagata, grandissima cagata.

Ne “L’Abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire” ritroviamo tutti gli ingredienti della cucina di Ugo Tognazzi: golosità, sperimentazione, convivialità (oltre che glicemia e colesterolo alle stelle!). Dopo una prefazione dove si auspica un ritorno alla “morale epicurea della gioia” e si denunciano le “schiere dei liofilizzati, dei surgelati, degli inscatolati” (1974!); il libro si divide in tre sezioni: Autogastrobiografia (ricordi personali e ricette in abbinamento), Ricettario, La Dernière Bouffe (alcuni piatti de “La grande abbuffata”). Alla leggerezza del tono (evidente anche nei nomi delle preparazioni: Bavarese di tette, Una milanese a Roma, Maial tonné…) corrisponde una certa pesantezza dei piatti, almeno a giudicare con gli odierni apparati gastrointestinali. Il fatto è che ogni singola ricetta, che sia una rivisitazione o una sua invenzione, ha come fine il piacere puro, incurante di tutto il resto (linea, digeribilità, salute). Ecco il dosaggio generoso degli ingredienti, le cotture straricche, panna e burro un po’ dappertutto, così come l’immancabile goccetto di brandy.

Una cucina non sana, ma di certo gustosa. Con la sua carbonara per esempio conquistò letteralmente l’America. In tour per presentare il film “Marcia Nuziale”, alla prima di New York cucinò il celebre piatto per 350 persone. Il successo fu tale che proseguì il giro promozionale nelle altre città più per presentare la carbonara che il film. (Neanche a dirlo la ricetta prevedeva l’aggiunta di panna, burro e un goccio di cognac o brandy).

Che cosa rimane di tutto questo per i palati di oggi? Diciamo che “L’Abbuffone” di Ugo Tognazzi parla più ai cuori: per ricordarci – tra Masterchef, foto ai piatti, diete mortificanti e autopunitive – che il cibo è essenzialmente gioia.

Ugo Tognazzi, “L’Abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire”, Avigliano Editore, 13 €.

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