Se volete capire come mai l’umanità sia passata dalla grandezza della carbonara a ingerire una sostanza chiamata seitan, bisogna leggere “Homo dieteticus”, il divertente libro di Marino Niola sulle tribù alimentari. (Anche se capirlo fino in fondo è impossibile).
Iniziamo col dire che è in atto un processo di colpevolizzazione sempre maggiore nei confronti del cibo, considerato non più come uno dei grandi piaceri della vita, ma come dispiacere. Si mangia sempre meno con la gola e sempre più con la testa: attenti ossessivamente a nutrirsi solo di cose che non fanno male (per i dietologi ortoressia, per Jannacci “quelli che vivono da malati per morire da sani”); dilaniati da sensi di colpa bergmaniani nei confronti degli animali; pronti ad abbracciare fideisticamente scelte alimentari che hanno a che fare più con la psichiatria che con la gastronomia. Il risultato è il trionfo delle rinunce e delle diete penitenziali, da anacoreta del III sec. d.C.
Eppure… eppure uno dei tratti distintivi della nostra civiltà mediterranea è proprio nel piacere del mangiare, inteso sia come la gioia che dà il buon cibo che come convivialità (la parola compagno deriva da cum panis, qualcuno con cui condividi il pane). Non si potrebbe dire meglio del napoletano “comm’ è bell’ o’ magnà!”. E invece il trend attuale è quello di umiliare le papille gustative. In parte c’entra il culto del corpo, iniziato negli anni 80 e cresciuto poi in maniera esponenziale, fino ai risultati drammatici di oggi (vedi le copertine di Men’s Health). Ma non è tutto. Una dose di responsabilità ricade anche sulla rete, che fa da cassa di risonanza micidiale a qualsiasi tipo di stravaganza, meglio se in salsa apocalittica. Come a dire che una volta agli Hare Krishna bastava non aprire la porta, oggi te li ritrovi in casa grazie a Facebook e Google. E sono pure più convincenti, visto che su internet tutto le informazioni appaiono credibili allo stesso modo (e tutte le vaccate sono grigie).
La parte più gustosa di “Homo dieteticus” è proprio quando Marino Niola passa in rassegna le diverse tribù alimentari. Così a proposito dei vegani apprendiamo che in America il loro esasperato gastronomically correct investe anche la sfera sessuale: le cosiddette vegansexuals si rifiutano di avere rapporti con partner carnivori per paura di essere contaminate. Poi ci sono i crudisti, che considerano un passo avanti tornare a prima della scoperta del fuoco; non mangiano cibo cotto, ma solo frutta, bacche, radici, oltre che carne e pesce rigorosamente crudi. Leggermente più evoluti i seguaci delle paleodiete, che hanno come modello l’uomo-cacciatore dei tempi preistorici e pertanto si nutrono di selvaggina. Degni di segnalazione anche coloro che fanno le diete seguendo il gruppo sanguigno (Dracula apprezzerebbe). Aggiungo di mio pugno i breatharians ovvero quelli che si nutrono di sola aria, i miei preferiti anche se inevitabilmente hanno vita breve.
Sarebbe un reato lasciare che queste psuedo-diete dall’America si diffondano nel nostro paese (non meno grave che se si diffondesse da noi la pettinatura di Donald Trump). Dunque alziamo barricate di lasagne, mortadelle, baccalà, bucatini alla matriciana, polpette, spaghetti con le vongole, pasta e fagioli (rigorosamente con le codiche), orecchiette alle cime di rapa, calamari ripieni, pizze, risotti, cotechini con le lenticchie, conigli alla cacciatora, scampi alla griglia, forme intere di parmigiano… In una parola, difendiamoci con la nostra dieta mediterranea, come ci ricorda Marino Niola in “Homo dieteticus”, patrimonio Unesco e modello per la piramide alimentare dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Mangiare poco ma tutto, bere vino con moderazione, fare moto e sorridere a tavola. Cosa che ingerendo un cubetto di tofu non succederà mai.
Marino Niola, “Homo dieteticus”, il Mulino, 13 €.