Bisognerebbe regalare una copia del libro “Roma Caput Vini” di Giovanni Negri a ogni francese supponente: la prima conseguenza sarebbe che milioni di copie andrebbero subito esaurite; la seconda è che potrebbero apprendere qual è stata la vera origine del vino in Francia.
Nella loro vulgata la buttano un po’ in caciara, riconducono la diffusione della vite nel loro paese a una non meglio precisata civiltà gallo-romana. Ma all’epoca la civiltà era una sola, quella romana; i Galli erano barbari e in quanto tali bevitori di birra (sicuramente artigianale). Fu poi Giulio Cesare a conquistare la regione (trovando il tempo la sera di scrivere il “De Bello Gallico”) e a fare dei rozzi antenati dei francesi un popolo civilizzato. Ma non fu quello il momento in cui la vite mise le radici in Francia. Allora per rifornire i legionari di stanza nella Gallia bastava il vino che si produceva nel Veneto e che da Aquileia veniva spedito oltralpe; mentre a Roma le famiglie patrizie banchettavano coi migliori vini dell’epoca, quelli campani (Falerno in primis).
Succederà tutto invece circa tre secoli dopo, quando il Mediterraneo sarà diventato il laghetto di Roma: un impero che va dall’Atlantico all’Iran, dal Maghreb al Danubio e al Reno. Quando soprattutto, nel 276 d.C, diventa imperatore Marco Aurelio Probo, personaggio trascurato dalla storiografia ufficiale, ma che come evidenzia Giovanni Negri in “Roma Caput Vini” ha un ruolo assolutamente decisivo per la storia del vino. Intuisce che non è più aria di espansione, bisogna al contrario consolidare; e per fare questo lancia il più grande programma mai realizzato di impianto della vite: praticamente in tutta la superficie dell’impero. A chi era subito fuori, oltre alle popolazioni sottomesse, doveva infatti arrivare il messaggio che i Romani erano lì per rimanere, con un progetto che necessita tempo, cura e attenzione: la vigna. In più poteva impiegare in tempo di pace centinaia di migliaia di legionari in un’attività proficua e che garantisse loro il fabbisogno di vino.
La scienza ha confermato in pieno quello che la storia suggerisce. Un’equipe di studiosi guidata da un luminare come Attilio Scienza, attraverso l’analisi del DNA ha scoperto che ben 78 vitigni europei hanno un progenitore in comune. Si tratta dell’heunish, quello che Probo con il suo editto decise d’impiantare ovunque: un’uva guarda caso facilmente adattabile e molto produttiva. Nel corso dei secoli sarà poi sottoposto a degli incroci per migliorarne la qualità, dando così vita a gran parte dei vitigni moderni.
Come dimostra Giovanni Negri col suo “Roma caput vini”, non c’è dubbio che la decisione di Probo determinò la diffusione della vite in tutta Europa, non solo in Francia. Pensiamo alla Germania per esempio, le cui aree tradizionalmente più vocate lungo il Reno e la Mosella, non a caso rientrano tra i confini estremi dell’impero. Lo stesso dicasi per le ex-province Hispania (Spagna e Portogallo), Dalmazia e Illiria (Serbia, Macedonia e Croazia), Pannonia e Mesia (Ungheria, Romania e Bulgaria). Solo che mentre questi paesi ammettono le origini romane della loro viticultura, i francesi, con il loro savoir-faire, no. Eppure sarà proprio quello il seme che darà i frutti migliori pensando a quello che rappresenterà la Francia per la storia del vino, dal medioevo ai giorni nostri.
A proposito, il loro Romanée Conti, la bottiglia più prestigiosa del mondo, deve il “romanée” al fatto che la vigna fu un regalo delle popolazioni galliche all’imperatore romano Probo per ringraziarlo del suo editto. Pur temendo una testata in petto da qualche blogger francese, questa cosa dovevo proprio scriverla.
Giovanni Negri – Elisabetta Petrini, “Roma Caput Vini”, Mondadori, 18 €.
che cazzate
che cazzate chi l’ha scritto di canio sto libro?
Che cazzata, chi l’ha scritto ‘sto commento?